Prof. Carducci: “È ora di far rispettare la giustizia climatica”

La redazione di emergenzaclimatica.it sottoscrive l’analisi seguente e l’assume come manifesto per le proprie azioni giuridiche, legali e sociali per la giustizia climatica.

Abstract: The search for the differential characters of “climate justice” – The article proposes a brief reconstruction of the different conceptions of justice, connected to the themes of the environment, climate change and ecology, to then compare these conceptions with the empirical experiences and doctrinal classifications of “climate change litigation strategies”.
The panorama appears unclear in identifying the specificities of the legal issues connected to the anthropogenic phenomenon of climate change, especially in the current situation of triple (ecosystem, climate and fossil) planetary emergency, which requires to fight against the collapse of the earth system also through “bottom up” instruments and not being trapped in the “Tragedy of the Horizon”.

La ricerca dei caratteri differenziali della “giustizia climatica”

di Michele Carducci

Keywords: Climate Justice; Climate Litigation Strategy, Climate Emergency; UNFCCC.

1. Una questione di (uso di) parole

Le formule “giustizia ambientale”, “giustizia climatica” e “giustizia ecologica” identificano un campo semantico talmente variegato e multiforme, da essere utilizzato da giuristi e scienziati sociali per definizioni tutt’altro che univoche e convergenti.

Dal punto di vista del diritto comparato, poi, esse offrono un interessante esempio di come i formanti giuridici vengano impiegati nelle loro reciproche osservazioni, al fine di (tentare di) descrivere la realtà del rapporto tra diritto e ambiente naturale esterno. Il formante dottrinale definisce la “giustizia” osservando e comparando il formante “giurisprudenziale”, ma molto spesso ignorando le differenze reali tra “ambiente”, “clima” ed “ecologia” (così sovrapponendo fenomeni naturali, come il clima, a definizioni convenzionali, come quella di “ambiente”, a figurazioni intellettuali, come quella di “ecologia”), per poi trascurare anche gli elementi determinanti e distintivi del formante “normativo”, riferibile ora all’“ambiente”, ora al “clima” ora alla “ecologia”. Contestualmente, filosofie ed etiche ambientali discutono delle questioni di “giustizia”, senza considerare gli elementi determinanti dei diversi sistemi normativi, al cui interno i temi ambientali, climatici ed ecologici sono regolati giuridicamente. Del resto, il paradosso più frequente, in cui incorre proprio il diritto ambientale, è quello di interpretare norme e procedimenti, senza conoscere sufficientemente l’oggetto cui tali norme si riferiscono: ovvero gli elementi naturali fra loro diversamente interagenti di biosfera e atmosfera.

Le corrispondenti formule di “giustizia”, pertanto, risentono di questa pprossimazione, generando non pochi equivoci e alimentando analisi parziali e spesso persino approssimative sul tema del rapporto tra “giustizia”, da un lato, “ambiente”, “clima” ed “ecologia”, dall’altro.

In questo quadro, il presente contributo, senza alcuna pretesa di completezza e senza entrare nel dettaglio dei singoli profili (per i quali si forniranno rinvii bibliografici), intende offrire alcuni criteri di orientamento su questo intreccio di parole, forme e metodi di osservazione della realtà, ad uso dei giuristi.

Lo si farà nella separazione lessicale, apparentemente banale ma tutt’altro che scontata, tra “giustizia” (“ambientale”, “climatica” ed “ecologica”) e “contenzioso” (“ambientale”, “climatico” ed “ecologico”), dato che il primo rappresenta il frutto della elaborazione del formante dottrinale, di derivazione giuridica e sociologica, mentre il secondo riflette le dinamiche reali del solo formante giurisprudenziale, così come analizzato dal primo.

2. Formanti dottrinali e visioni di “giustizia”

Tutte e tre le formule “giustizia ambientale”, “climatica” ed “ ecologica” sono figlie di elaborazioni dottrinali di carattere socio-giuridico.

Il concetto “ambientale” nasce negli Stati Uniti tra i movimenti per la difesa dei diritti civili che denunciano, a partire dalle proteste del 1982 della Warren County nel North Carolina, come l’esposizione a rischi e danni ambientali (in termini principalmente di inquinamento, rifiuti e degrado paesaggistico) abbia riguardato sistematicamente comunità povere, periferiche o di minoranza, incapaci di far valere i propri diritti presso i tribunali. Il sociologo Robert Bullard, qualificatosi come il padre della “giustizia ambientale”4, è stato il primo ad allegare evidenze empiriche sistematiche su tale connessione. “Giustizia ambientale”, pertanto, è divenuto sinonimo di “giustizia sociale” nell’uso dei luoghi e nell’esercizio dei propri diritti, rispetto a processi umani di impatto ambientale5. Il suo fulcro non ha riguardato l’ambiente in generale né tantomeno il clima o l’ecologia, genericamente intesa come discorso sulla natura6. Ha riguardato rischi e danni rispetto a luoghi e soggetti, in una prospettiva socio-centrica che, invece di mettere in discussione i processi ecodistruttivi, ne contestava le modalità di gestione degli effetti (dove allocare i danni, piuttosto che come evitare i danni).

“Giustizia ambientale” è così assurto a sinonimo di conflitto di “localizzazione”, in tal senso “ambientale”: soggetti e luoghi alimentano contrarietà ai danni, al di là delle loro specifiche rappresentazioni del rapporto tra azioni umane, biosfera e atmosfera, declinando il tema “ambientale” come contrasto “locale” agli impatti delle emissioni inquinanti, dei rifiuti e delle trasformazioni del paesaggio, rispetto a una situazione sociale già disagiata (non a caso, inaugurando sia la c.d. “Popular Epidemiology” sia le prassi c.d. “PEM” – Participatory Environmental Monitoring).

Del resto, su questa linea evolutiva sono maturate le numerose rappresentazioni della logica conflittuale c.d. “Nimby”. Lo stesso diritto ambientale delle “valutazioni di impatto” e dell’accesso alla giustizia (si pensi, per tutte, alla Convezione di Aarhus del 1998) è figlio di tale figurazione georeferenziata tra condizioni spaziali/condizioni sociali dei danni.

Più complesso, nelle sue matrici e nei suoi contenuti, si rivela essere il concetto di “giustizia ecologica”, frutto dell’intreccio di studi e valutazioni di biologi, economisti e filosofi. Da un lato, infatti, il termine può essere ricondotto al contributo di Barry Commoner sulle “forme di governo” degli ecosistemi naturali come “cicli chiusi disturbati” da regole umane giuridiche ed economiche, e di K. William Kapp, con il suo The Social Costs of Private Enterprises del 1950, riferito alla natura e alle sue regole ignorate dagli istituti giuridici del contratto.

Dall’altro, i suoi elementi differenziali, rispetto alla prospettiva formale delle “valutazioni di impatto” su singoli luoghi, sono stati scandagliati dal confronto tra economia ecologica ed ecologia politica. Se l’economia ecologica studia le relazioni tra economia e ambiente in termini di sostenibilità naturale degli scambi economici nel computo e nella quantificazione globale dei danni ambientali, l’ecologia politica scandaglia parallelamente come questi scambi globali, produttivi di danni, incidano sulla distribuzione dei costi fra Stati e comunità rispetto non solo al mercato (in termini, quindi, di perdita di valore), ma anche alla società, con le sue disuguaglianze, e alla natura, con le sue biodiversità. Si pensi alle analisi sul ciclo di vita di un prodotto, dall’estrazione degli elementi per la sua composizione fino alla sua commercializzazione, al suo consumo e alla sua fine come “rifiuto”.

Con riferimento ad esse, si è parlato tanto di “economia di rapina” (Raubwirtschaft), sin dalla fine del XIX secolo, per spiegare le asimmetrie fra mancata attribuzione di valore a beni, servizi e risorse naturali e quantificazione dei prezzi dei prodotti confezionati attraverso il loro sfruttamento, quanto di “dumping ecologico”, per indicare le modalità volontarie di riduzione del prezzo di un prodotto escludendone i costi naturali, quanto di “commercio ecologicamente diseguale”, per descrivere la debolezza negoziale dei paesi con forti diseguaglianze sociali ed enormi ricchezze naturali, incapaci di imporre condizioni e prezzi (per esempio, come “Natural Capital Depletion Tax”) sullo sfruttamento della natura.

Pertanto, mentre la “giustizia ambientale” si occuperebbe, attraverso la sociologia giuridica, del rapporto tra discriminazioni sociali, mancata tutela effettiva dei diritti e impatti ambientali locali, la “giustizia ecologica” guarderebbe, in base a metodi economici, alle asimmetrie che i processi produttivi globali di merci mantengono rispetto alla (mancata) attribuzione di valore a beni, servizi e risorse naturali e ai costi derivanti dal loro sfruttamento. Metodologie, come quella del “flusso di materiali”, dell’“uso di energia” e dell’“appropriazione umana della produzione primaria netta” (HANPP)18, sono servite a far risaltare tale differenza tra considerazione locale dell’ambiente e prospettiva “ecologica” globale, consentendo l’avvio di un dialogo tra economia ed ecologia, che invece la dottrina giuridica, costretta allo studio dei singoli ordinamenti giuridici e dei singoli danni sui singoli luoghi dentro il paradigma della “sovranità statale sulle risorse naturali”, non ha mai pienamente perseguito, accontentandosi al massimo della sociologia giuridica dei conflitti locali o della comparazione interordinamentale delle norme ambientali.

Il termine “giustizia climatica” è più recente e si presenta a vocazione anch’essa globale. Appare per la prima volta nel 1999, in un saggio sulla responsabilità dell’inquinamento dei paesi industrializzati a svantaggio degli Stati che subiscono gli effetti del cambiamento climatico e del surriscaldamento del sistema Terra, a causa delle imprese fossili21. Nel 2002, con il Climate Justice Summit, in occasione della COP6 a L’Aia, in Olanda, è stato ufficializzato, per poi trovare una sua prima formalizzazione nei “Ventisette principi della giustizia climatica di Bali”, cui sono seguite altre dichiarazioni più o meno simili nei

contenuti: dal c.d “Llamado a los pueblos para actuar contra el cambio climático” alla “Dichiarazione di Durban sul commercio del carbonio”24, sino alla fondazione, nel 2007 sempre a Bali in occasione della COP13, della rete associativa “Climate Justice Now”, e nel 2009, all’interno del “IV Cumbre de Pueblos y Nacionalidades Indígenas del Abya Yala”, della istituzione del “Tribunal de Justicia Climática”, che «juzgue éticamente a las empresas transnacionales y los gobiernos cómplices que depredan la Madre Naturaleza, saquean nuestros bienes naturales y vulneran nuestros derechos».

La formula, originariamente frutto di mobilitazioni ambientali locali prevalentemente indigene più che di analisi e studi scientifici, ha preso poi sempre più piede, alimentando una semplificazione molto approssimativa, così sintetizzabile: il fatto che i paesi maggiormente colpiti dai fenomeni atmosferici estremi, indotti appunto dall’accelerazione dei cambiamenti climatici, siano quelli che meno hanno contribuito allo stravolgimento del sistema climatico, in termini di emissioni di gas ad effetto serra, impone inedite rivendicazioni di giustizia a livello globale28. Da tale angolo di visuale, la “giustizia climatica” si presenterebbe ancora una volta come questione di giustizia sociale “locale” sui danni29. Del resto, tale riduzione ha indotto ad accomunare il concetto di “clima” a quello di “ambiente”: come gli “ambienti” periferici delle singole località sono stati danneggiati dai fenomeni di inquinamento e deposito rifiuti, così il “clima” degli Stati meno responsabili delle emissioni è stato danneggiato dagli effetti atmosferici dei cambiamenti climatici, prodotti dai paesi più ricchi30. Posta in questi termini, la questione di “giustizia” su “ambiente” e “clima” presenterebbe un comune denominatore: il danno “localizzabile”.

Questo parallelismo, però, ha trascurato la variabile determinante della matrice della “ubicazione” del danno stesso, che, nel caso “ambientale”, è esclusivamente politica (la dislocazione della fonte inquinante o di discarica), mentre, nel caso “climatico”, è biosferica e atmosferica (le emissioni globali che determinano aumento della temperatura e fenomeni atmosferici estremi che circolano indipendentemente dalla volontà politica di “ubicazione” del danno, dentro un complesso processo atmosferico e biosferico di Feedback Loop).

Di conseguenza, la “giustizia climatica” non coincide affatto con una specifica vicenda di decisione politica sui danni, bensì deriva dalla produzione di emissioni che sfuggono poi al controllo umano dei territori. Non è dunque una questione di rapporti sociali tra territori (il dove ubicare il danno), ma di rapporti ecologici tra attività umane e dinamiche naturali (il come gestire le emissioni tra biosfera e atmosfera), sottratti proprio a quella disponibilità politica sul pianeta terra, che il diritto ambientale ha disciplinato come regolazione su singoli luoghi e singoli danni.

L’evidenza è emersa da due specifiche modalità di comparazione:

– quella tra dinamiche ecosistemiche globali e regole giuridiche nazionali di “impatto ambientale”, finalizzate a governare i conflitti sui territori e (tentare di) rendere compatibili le interferenze umane sugli ecosistemi;

– quella storica e geopolitica fra Stati con riguardo alle emissioni cumulative, da ciascun paese prodotte dall’era industriale in poi.

È stata soprattutto quest’ultima comparazione a rendere tangibili i problemi di “giustizia climatica” interstatale sia sul fronte della imputazione “differenziata” delle responsabilità dei singoli Stati sia su quello della condivisione, fra Stati, delle soluzioni. In particolare, essa ha inciso su due fronti: la distribuzione del c.d. “Carbon Budget”, ossia della quantità di CO2 che può essere ancora emessa nell’atmosfera senza pregiudicare il riscaldamento climatico nei limiti (di 2°C o 1,5°C in più rispetto ai valori pre-industriali) richiesti dagli impegni internazionali assunti per contrastare ulteriori effetti devastanti di mancato controllo del Warming Feedback Loop; la considerazione della “intensità di carbonio” (ossia il quantitativo di carbonio emesso per unità di energia consumata pro capite), che risulta paradossalmente inferiore negli Stati a più alto consumo di energia, in quanto più ricchi e tecnologicamente più efficienti, rispetto a quelli a più basso consumo di energia ma meno efficienti perché più poveri e con meno tecnologie di contenimento delle emissioni (si emette più carbonio per produrre una maglietta in Bangladesh che nella UE o negli USA). Come gestire queste due situazioni di “giustizia”, quella “globale” del “Carbon Budget” e quella “locale” della “intensità di carbonio”? Dividendo il “Carbon Budget” per il numero degli Stati, dato il carattere “globale” del Feedback, o modulandolo in ragione di valutazioni né biosferiche né atmosferiche, ma politiche e sociali “locali” (data la matrice sociale della “intensità di carbonio”)?

Il caso più emblematico è stato offerto dalla Cina. Una serie di studi hanno dimostrato che l’aumento delle sue emissioni è dipeso da fattori esterni, connessi alla globalizzazione dei mercati. Infatti, quasi il 50% delle emissioni di questo paese, a partire dal 2002, sono state generate da due variabili, entrambe estranee alla crescita della popolazione e al cambiamento degli stili di vita dei cinesi: da un lato, l’aumento delle esportazioni per soddisfare domanda estera; dall’altro, l’aumento di capitali stranieri in attività energivore interne al paese, ma funzionali a quelle esportazioni. In poche parole, la Cina ha peggiorato il proprio “Carbon Budget” per produrre beni di consumo per l’Occidente e attraverso investimenti dell’Occidente.

La constatazione è importante, perché ha tracciato il nesso della “giustizia climatica” con quella “ecologica” (globale), prima ancora che con quella “ambientale (locale), con riguardo, però, non al ciclo di produzione di una merce rispetto alla natura (fonte del “commercio ecologicamente diseguale”), bensì all’aumento del fabbisogno energetico di uno Stato, con connesse emissioni, a sostegno di consumi esterni allo Stato, con connesse emissioni40. La “giustizia climatica”, di conseguenza, si presenta come fenomeno esso stesso di Feedback Loop: da un lato, la disparità di trattamento sulle emissioni climalteranti in funzione del mercato globale penalizza gli Stati esportatori in termini di “Carbon Budget” e di “intensità di carbonio”, a vantaggio degli Stati importatori più virtuosi sul fronte climatico: dall’altro, l’aumento delle emissioni contribuisce comunque a determinare effetti atmosferici di doppio danno, negli Stati esportatori, con l’aumento delle emissioni “da esportazione”, e negli Stati meno climalteranti, con gli eventi atmosferici estremi e la beffa della “intensità di carbonio”. In questo quadro asimmetrico, gli interrogativi di “giustizia” diventano innumerevoli. Come imputare la responsabilità delle emissioni e la quantità di “Carbon Budget” disponibile? In base al luogo di produzione o a quello di consumo? Un sistema di contabilità climatica sul consumo non offrirebbe un’immagine più realistica della responsabilità dei vari Stati riguardo al riscaldamento globale? E non consentirebbe di differenziare la responsabilità degli Stati, nell’adempimento del controllo delle emissioni, da quelle delle imprese multinazionali o straniere che investono sulle esportazioni, abusando della “intensità di carbonio” e concorrendo così all’aumento di emissioni?

In una parola, tale sistema di contabilità non chiarirebbe e puntualizzerebbe meglio le imputazioni giuridiche di responsabilità dei soggetti pubblici e privati rispetto ai cambiamenti climatici antropogenici, rispondendo a domande globali di “giustizia”?

Consentirebbe, per esempio, di qualificare giuridicamente la capacità dell’atmosfera di assorbire la CO2 come “Global Common” di cui ingiustamente si sarebbero appropriati Stati di consumo e imprese di esportazione, in termini appunto di emissioni e connesso condizionamento del “Carbon Budget” e della “intensità di carbonio”, a discapito di altri Stati, imprese e persone di mera produzione locale e di basso consumo locale. Tra l’altro, il conteggio del “debito climatico” di Stati e imprese è stato già ampiamente testato, sicché l’operazione non apparirebbe impossibile. Esso servirebbe anche a collocare la responsabilità del cambiamento climatico nell’alveo dell’equità intergenerazionale (tra presenti e future generazioni rispetto al “Carbon Budget”), come, tra l’altro, riconosciuto dal diritto climatico internazionale.

Infine, renderebbe più verosimilmente perseguibili gli obiettivi di sviluppo sostenibile formulati dall’ONU nel 2015 (i 17 SDGs ONU), di cui si è già dimostrato che la realizzazione indifferenziata, secondo le stesse traiettorie di crescita già perseguite dai paesi sviluppati, è praticamente impossibile, proprio a causa del poco “Carbon Budget” disponibile e della diversa “intensità di carbonio” fra Stati.

 3. Dalla “giustizia” alla “Litigation Strategy”

Esiste un contenzioso giudiziale che si fa carico di dare risposte a queste domande di “giustizia climatica”? Invero, l’ipotesi del “Tribunal de Justicia Climática” mirava, ancorché in modo piuttosto approssimativo, a questo scopo. Tuttavia, l’esperimento non ha avuto seguito né è servito a far maturare una opinio iuris sul tema, anche in ragione delle prevalenza di discorsi normativi a contenuto morale, prima ancora che giuridico-positivo.

Pertanto, ad oggi, non esiste alcun Judicial Case il cui thema decidendum verta sul “debito climatico” tra Stati o tra imprese, sul “Carbon Budget” parametrato al consumo degli Stati e non alla produzione negli Stati, sulla disparità di trattamento rispetto alla “intensità di carbonio” delle persone o dei popoli.

Stando così le cose, allora, che cosa sarebbe il “contenzioso climatico”? Un normale contenzioso “ambientale” insorto in determinati luoghi con riguardo a determinati danni da emissione climalterante? Oppure esso coincide con qualsiasi controversia dove si discute comunque di emissioni climalteranti, indipendentemente dalle questioni di “giustizia climatica” globale? O, ancora, esso risiede pure nei litigi giudiziali in tema di tutela degli ecosistemi e riconoscimento dei “diritti della natura”, minacciati dai cambiamenti climatici? Ma a quali condizioni è possibile rubricare un contenzioso come “ecologico”, invece che “climatico”?

Come si può constatare, a seconda dell’opzione del formante dottrinale sulla questione di “giustizia” rispetto ad “ambiente”, “clima” ed “ecologia”, la risposta alle domande poste può variare, condizionando classificazioni e denominazioni del formante giurisprudenziale come “contenzioso climatico”.

È proprio questo lo scenario del panorama comparato delle dottrine giuridiche sulle “Climate Change Litigation Strategies”. Ogni classificazione riflette la “visione di giustizia” del giurista che inquadra il formante giurisprudenziale, al di là della osservazione reale e concreta della differenza tra “ambiente”, “clima” ed “ecologia” e delle variabili determinanti del diritto.

Alcune qualificano come “climatico” qualsiasi contenzioso che, direttamente o indirettamente, si riferisca agli impatti dei cambiamenti climatici in determinati luoghi. Secondo questo criterio, la distinzione tra contenziosi “ambientali” e multifattoriale e gli argomenti giuridici vertere non per forza su emissioni, “Carbon Budget”, “debito climatico” e “intensità di carbonio”.

Altre definiscono “climatiche” le controversie riferite all’utilizzo umano dellerisorse fossili, in termini di estrazione, produzione e distribuzione di energia pacificamente riconosciuta come climalterante. Altre ancora enfatizzano la funzione “strategica” del contenzioso in cui si denunciano responsabilità omissive dello Stato nell’adempimento dei propri obblighi di lotta ai cambiamenti climatici, soprattutto dopo la conclusione dell’Accordo di Parigi del 2015 e l’adozione dei 17 SDGs ONU 2030, comprensivi, al n. 13, del tema del clima come “Goal” giuridicamente disciplinato.

Infine, sono da ricordare le classificazioni che denominano “climatiche” le controversie giudiziali in cui si dibatte comunque di lesioni dei diritti umani derivanti dal cambiamento climatico.

Accanto alle classificazioni dottrinali, si annoverano raccolte di contenzioso di varia natura, giudiziale, amministrativo, paragiurisdizionale, ordinate in parallelo alle fonti del diritto climatico53. Queste ultime orientano la ricerca di “Cases” secondo una struttura “ad albero” su nove livelli: 1. collocazione geografica della controversia; 2. natura del convenuto (Stato, impresa, privato); 3. attori del contenzioso (cittadini e associazioni, amministrazioni locali, investitori pubblici o privati, azionisti o gruppi di azionisti di Corporation); 4. contenuti del contenzioso (includendovi temi i più diversi: dalla tutela dei diritti umani all’accesso alle informazioni, alla regolarità delle autorizzazioni amministrative, ecc.); 5. parametro utilizzato (fonti internazionali, Duty of Care e Due Diligence di fonte interna, contratti); 6. comportamento censurato (commissivo, negligente, omissivo); 7. responsabilità giuridica eccepita (contrattuale, extracontrattuale, oggettiva); 8. lesione concreta lamentata (disturbo della quiete pubblica, turbativa dei diritti d’uso e godimento di proprietà, immissione in commercio di prodotto difettoso, superamento soglie di emissione, fumi e immissioni moleste, arricchimento senza causa, atti emulativi e abuso di diritto, trasparenza e verità nella informazione); 9. evento dannoso lamentato (locale, come conseguenza di emissioni globali di CO2, oppure il contrario, globale, in quanto incremento proveniente dal comportamento locale).

In linea con questo approccio meramente didascalico, sono state anche pubblicate raccolte e ricognizioni di “Climate Change Litigation Strategies”.

 Questo quadro, però, non consente di comprendere quale sia l’istanza di “giustizia”, sottesa al contenzioso censito rispetto al fenomeno del cambiamento climatico antropogenico. Ne deriva che, mentre il contenzioso “ambientale” appare facilmente intuibile nei suoi contenuti (come istanza di giustizia per danni “localizzati” oggettivi – all’ambiente – e soggettivi – alla persona, in termini di salute personale e salubrità ambientale), quello “climatico” sembrerebbe prestarsi a qualsiasi finalità in nome del clima.

Non a caso, nel contesto angloamericano, dove queste classificazioni hanno avuto presa, la “Climate Change Litigation Strategy” può includere di tutto: dalle pratiche c.d. “SLAPP” (Strategic Lawsuit Against Public Participation)56 a quelle “ISDS” (Investor- State Dispute Settlement Mechanism)57, al ricorso alla c.d. “Zombie Clause” della Carta dell’Energia (art. 47 c. 3) a favore delle Corporation, all’uso dell’argomento climatico da parte di investitori in concorrenza con Corporation climalteranti, ai più classici riferimenti ai contenziosi di “Toxic Tort”, “Public Trust”, “Impact Assessment”.

Questa genericità è alla base delle critiche sulla effettiva esistenza di un “contenzioso climatico” separato e autonomo dalle altre pratiche di “Litigation Strategy”, fondate su contenuti, parametri e pretese non connessi con questioni di “giustizia” nell’era dei cambiamenti climatici antropogenici.

Nel contempo, essa, per quanto efficace come ricognizione didascalica dell’esistente, non induce a individuare e comparare gli elementi comuni alle diverse esperienze di “contenzioso climatico”, maturate nel mondo, né i problemi che tali esperienze presentano, la cui conoscenza faciliterebbe anche la comprensione degli effettivi obiettivi di “giustizia” perseguibili a livello globale, dato che la “giustizia climatica” insorge come problema globale.

Del resto, tutte queste ricostruzioni trascurano l’elemento determinante della qualificazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio, le cui caratteristiche sembrano indifferenti al tema delle questioni di “giustizia climatica” (si pensi al rapporto tra investitori e Corporation), a condizione che, nel dedotto stesso, risulti in ogni modo presente il profilo delle emissioni climalteranti antropogeniche. In poche parole, al fine di porre in essere un “contenzioso climatico”, chi agisce, nel dover dimostrare l’esistenza di una norma che contempli in astratto il diritto che si vuol far valere (c.d. possibilità giuridica), il bisogno di tutela giurisdizionale derivante dall’affermazione dei fatti costitutivi e dei fatti lesivi del diritto (c.d. interesse ad agire) e la coincidenza tra chi propone la domanda e colui che nella domanda stessa è affermato come titolare del diritto (c.d. legittimazione ad agire), rappresenta un rapporto giuridico specifico riguardante non il “clima”, ma situazioni o istituti giuridici disciplinati da fonti normative o contrattuali estranee alla lotta ai cambiamenti climatici, al cui interno, però, il fenomeno delle emissioni climalteranti può essere speso per rafforzare le proprie tutele.

In questo quadro, la questione climatica scade a occasione di mera “Strategy”, nel significato già scandagliato dalla dottrina65, ovvero come approccio utile a rafforzare interessi contrapposti ad altri oppure non veicolati dalla deliberazione politica rappresentativa.

Insomma, per aversi “contenzioso climatico” non si deve necessariamente sottoporre a giudizio l’obbligazione climatica né atti o fatti considerati illeciti per il loro concorso agli effetti catastrofici del cambiamento climatico. Può essere, e il più delle volte è, altro: un determinato atto da impugnare; un determinato evento da eccepire come fatto illecito; un determinato comportamento ritenuto negligente; un determinato interesse pretermesso da un determinato procedimento; un determinato impatto; insomma altro, al cui interno il clima assurge ad “argomento” di rafforzamento della pretesa giudiziale, non invece a oggetto unico e assorbente del giudizio.

Molte difficoltà evidenziate dall’esperienza, soprattutto in termini di utilità di questi approcci per rendere effettiva la tutela giudiziale contro gli inadempimenti climatici di Stati e imprese, la qualificazione/quantificazione del danno conseguente agli eventi atmosferici derivanti dai cambiamenti climatici, l’inquadramento dei nessi causali climalteranti nel rispetto dei limiti legali di emissione, rappresentano una conseguenza di tale generalizzazione.

Recuperando il discrimine tracciato dal formante dottrinale sulla differenza tra “giustizia ambientale” e “giustizia climatica”, si dovrebbe concludere che il “contenzioso climatico”, una volta tematizzato, come formante giurisprudenziale in termini di “Strategy” perseguita dentro un qualsiasi conflitto “ambientale” o “sociale” locale, difficilmente coincide con le questioni di “giustizia”, che le emissioni climalteranti pongono a livello globale sul fronte del “Carbon Budget”, del “debito climatico” e della “intensità di carbonio”.

Probabilmente, rispetto a questo tertium comparationis, soltanto i casi “Urgenda” e “Juliana v. US” possono essere annoverati come esempi di “giustizia climatica”, nella misura in cui, in tali vicende, il giudice è stato chiamato a giudicare le condotte dello Stato rispetto alle obbligazioni climatiche assunte e agli effetti sul “Carbon Budget” per la tutela effettiva dei diritti dei ricorrenti.

4. Dalla “Strategy” alla tripla emergenza

Oggi, però, le questioni di “giustizia climatica” sono diventate urgenti e ineludibili, perché sono irrimediabilmente cambiati i presupposti di fatto che favoriscono o condizionano le “Litigation Strategies” in nome del clima.

Il mondo versa in una drammatica situazione di emergenza, ecosistemica71, climatica e fossile. È la prima volta che succede nella storia dei rapporti tra fatti e norme. Si tratta di una emergenza globale e locale al tempo stesso, irreversibile e scientificamente certa, che contribuisce ad aggravare e accelerare i meccanismi di Feedback Loop del sistema climatico e gli effetti sui c.d. “Tipping point” del sistema Terra.

La sintesi di questo dramma si riassume in non meno di dodici elementi di rottura degli equilibri tra azione umana e natura: 1) il superamento dei 350 ppm (parti per milione) di CO2 nell’atmosfera, ovvero la “soglia di sicurezza” per evitare rischi irreversibili per il genere umano75; 2) la condizione di “deficit ecologico” dell’intero pianeta, ovvero il consumo costante e crescente di beni, risorse e servizi eco sistemici in quantità, globale e locale, superiore alle capacità di rigenerazione della biosfera sulla spinta principale delle emissioni fossili; 3) il superamento di tre dei nove Planetary Boundaries (precisamente: cambiamenti climatici antropogenici; riduzione antropogenica della biodiversità; stravolgimento del ciclo dell’azoto), scientificamente individuati come condizioni di sicurezza della stabilità del sistema Terra; 4) il Climate Breakdown, ossia l’incidenza dei fenomeni atmosferici estremi (dalle siccità alle alluvioni) sulla stabilità dei sistemi economici, sociali e politici, con effetti di disaggregazione delle relazioni tra società e ambiente nella previsione dei costi e dei danni economici e umani78; 5) l’imminente esaurimento del “Carbon Budget” disponibile; 6) il raggiungimento di nove degli undici “Tipping Points” individuati dall’ONU, che costituiscono una minaccia esistenziale per la civiltà umana, non compensabile da alcuna analisi costi-benefici, nei cui confronti l’unica misura precauzionale possibile è quella del mantenimento delle temperature entro 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali, con la contestuale riduzione immediata e drastica delle emissioni fossili; 7) il “Production Gap” evidenziato dall’UNEP, da cui risulta che gli stessi impegni di contenimento delle emissioni da parte degli Stati, a parità di indici di crescita, non sono sufficienti al conseguimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015, connesso al “Circularity Gap”, ovvero alla circostanza che il tasso di circolarità dell’economia mondiale (che misura il rapporto fra l’impiego di materiali derivati o riciclati rispetto al totale di quelli impiegati) resta molto basso; 8) l’effetto “Win-Lose” delle regole giuridiche di controllo dell’inquinamento separate da quelle sulla lotta ai cambiamenti climatici; 9) l’insufficienza delle misure esistenti di Carbon Tax al fine di disincentivare attività emissive inquinanti e climalteranti; 10) il profilarsi di rischi incalcolabili nella loro gravità (c.d. ipotesi del “Cigno verde”); 11) la constatazione della insufficienza delle mere “analisi di impatto ambientale” su singoli progetti e singoli luoghi come risposta efficace nella scala globale del problema climatico; 12) il doppio termine del 2030 e 2050, come prestazione di risultato parametrata al tempo (aver conseguito la stabilizzazione della temperatura a 1,5°C entro e non oltre il 2030, per conseguire la “Carbon Neutrality” entro e non oltre il 2050).

Questi elementi non sono semplici dati fattuali. Essi assumono importanzan giuridica proprio sul fronte del “contenzioso climatico”: definiscono i contenuti del “fatto notorio” spendibile in giudizio88; corrispondono a quei “rischi di danni gravi o irreversibili”, su cui dispone l’art. 3 n. 3 della UNFCCC (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992) per attivare specifici meccanismi di azione e (valutazione delle) responsabilità89; definiscono una situazione di “estremo pericolo” (Distress) con connessi obblighi inderogabili di protezione nei risultati e non solo nei mezzi.

Certo, le fonti del diritto climatico si occupano di cambiamento climatico, non di emergenza ecosistemica e climatica al tempo stesso. Questo però non vuol dire che i loro contenuti non siano in grado di dispiegare efficacemente i propri effetti davanti a questa inedita situazione. Al contrario: proprio a causa della insorta doppia emergenza ecosistemica e climatica, le fonti del diritto climatico dimostrano tutta la loro forza normativa: quella forza che l’uso strumentale del “contenzioso climatico” come “Litigation Strategy” non è stato in grado di valorizzare pienamente.

Lo si può comprendere rileggendo i documenti costitutivi della disciplina giuridica del clima, alla luce appunto della doppia emergenza, ecosistemica e climatica, denunciata dalla scienza.

Il clima in sé, a differenza dell’ambiente, non conosce una propria definizione giuridica, né a livello di diritto internazionale né a livello di diritto domestico e neppure a livello di formante giurisprudenziale. Tale silenzio, tuttavia, non realizza una lacuna, bensì un rinvio alla realtà dei fatti, in quanto il clima coincide con la più importante funzione ecosistemica di regolazione di tutti i processi di interazione tra i viventi, compresa la specie umana91. Esso, pertanto, è un fatto regolativo, presupposto al diritto. Su di esso, il diritto non può nulla.

Il clima, inoltre, è il risultato dell’equilibrio degli scambi di energia e di materia fra le componenti del sistema climatico: atmosfera, idrosfera, biosfera (incluso l’essere umano), criosfera e litosfera. Questo secondo elemento potrebbe costituire oggetto di disciplina giuridica. Da un lato, il sistema climatico, in quanto equilibrio globale, potrebbe essere inquadrato in uno dei quattro schemi di tutela ambientale previsti dal diritto internazionale (transfrontaliero, del patrimonio comune dell’umanità, dell’obbligo erga omnes, delle c.d. “Shared Areas” o “Shared Resourses”); dall’altro, in quanto rapporto di scambio di energia e materia, esso potrebbe essere inquadrato nell’ambito della disciplina di uno specifico rapporto giuridico.

Ma neppure tale rappresentazione trova riscontro nei formanti giuridici: il diritto climatico non si occupa né di tutela globale del sistema né di disciplina dello scambio energia e clima. Il meccanismo di c.d. scambio di emissioni (ETS) realizza una funzione regolativa di contenimento delle attività climalteranti, ma non persegue la tutela diretta di un determinato bene o di un determinato rapporto giuridico, né tantomeno assolve a funzioni di “giustizia”.

Al contrario, le fonti costitutive della disciplina giuridica sono riferite, tutte, esclusivamente al cambiamento climatico antropogenico: dalle Risoluzioni dell’ONU AG 43/53, 44/207 e 45/212, in cui si legge che il “Climate Change is a Common Concern of Humankind”, al Preambolo e ai primi tre articoli della UNFCCC.

I contenuti delle Risoluzioni ONU sono chiarissimi. Il termine “Common Concern” riveste un doppio significato: l’esistenza di un interesse comune all’intera umanità e non agli Stati come tali; la preoccupazione per la conservazione del bene racchiuso nell’interesse. La disposizione, pertanto, ripresa sia nell’UNFCCC che nell’Accordo di Parigi del 2015, contiene una norma di protezione. E il bene tutelato è il cambiamento climatico come dinamica di equilibrio interno al sistema.

Di conseguenza, tale protezione descrive un obbligo non esclusivamente interstatale, perché di “Common Concern”, da adempiere nella dinamica dello spazio di ciascun singolo Stato.

I contenuti di disciplina di questa dinamica sono indicati dall’UNFCCC.

Anch’essa, più che definire, presuppone la conoscenza del clima e del sistema climatico nelle sue azioni e retroazioni e distingue il clima dal concetto di ambiente. Infatti, nel suo Preambolo si legge: «che i cambiamenti di clima del pianeta e i relativi effetti negativi costituiscono un motivo di preoccupazione per il genere umano»; «che le attività umane hanno notevolmente aumentato le concentrazioni atmosferiche di gas a effetto serra, e che questo aumento intensifica l’effetto serra naturale e che tale fenomeno provocherà in media un ulteriore riscaldamento della superficie della terra e dell’atmosfera e può avere un’influenza negativa sugli ecosistemi naturali e sul genere umano»; «che la previsione dei cambiamenti climatici è soggetta a molte incertezze, in particolare per quanto riguarda la collocazione nel tempo, la grandezza e le manifestazioni regionali»; «che gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse in rapporto alle loro politiche nel campo dell’ambiente e dello sviluppo, e hanno la responsabilità di garantire che le attività svolte nel territorio soggetto alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di regioni al di fuori della loro giurisdizione nazionale».

Clima e cambiamento climatico sono dunque confermati fatti presupposti al diritto (fatti detentori di una forza che si impone ab externo al diritto, in termini di Adjudicative Facts96) diversi dal generico concetto di “ambiente”97. In tal senso,ì depongono anche le disposizioni sia dell’art. 1 della UNFCC (che non per caso si apre con la formula “effetti negativi dei cambiamenti climatici” e solo dopo ricorre alla definizione di “cambiamenti climatici”, cui si aggancia quella non di “clima” bensì di “sistema climatico”, a sua volta collegato al concetto – anch’esso presupposto al diritto – di “interazioni”, separato dal fenomeno – qualificato invece dal diritto – delle “emissioni”) sia dell’art. 191 n. 1 del TFUE, dove la parola “ambiente” è separata dalla locuzione “combattere i cambiamenti climatici”.

Ora, tale struttura nomologica non è di poco conto: essa riflette, conferma e rispetta la qualificazione scientifica del clima come “funzione ecosistemica di regolazione”: il clima e il sistema climatico regolano la vita sulla terra, compresa quella umana, sicché possono essere solo presupposti dal diritto o definiti in base all’osservazione scientifica, perché non è il diritto a inventarli o a delimitarli (come invece è avvenuto con la figurazione giuridica dell’ambiente).

Com’è noto, quando il diritto definisce solo alcuni fenomeni e ne presuppone altri e le stesse definizioni sono di matrice scientifica (come si è visto, nella UFCCC, il diritto presuppone le “interazioni” ma definisce il “sistema climatico” e non il “clima”), allora il diritto rinvia, per la sua completa ed effettiva disciplina della realtà, ad altre sfere di acquisizione della realtà, che possono essere o di “derivazione sociale” (si pensi alle formule contenute in Costituzione, come quella italiana di “buon costume”98) o di evoluzione delle conoscenze scientifiche sulla realtà. Quest’ultima prospettiva, a sua volta, prelude a diversi scenari che, nel testo della UNFCCC, sono almeno tre: affidamento alla scienza di nozioni e definizioni pre-giuridiche su determinate azioni (è il caso del riferimento normativo alle “interazioni” e alle “emissioni”99); presupposizione di una realtà scientificamente acquisita nei suoi elementi costitutivi e di funzionamento (il concetto di clima, omesso dalle disposizioni della Convenzione); richiamo a fenomeni naturali preesistenti al diritto, che necessitano di una spiegazione scientifica di cui il diritto si appropria con le sue disposizioni normative definitorie (si tratta delle disposizioni definitorie del “sistema climatico”, degli “effetti negativi dei cambiamenti climatici”, dei “cambiamenti climatici”). In tutte e tre le ipotesi, il diritto non solo si affida a “fatti di conoscenza” scientifica, come presupposto o spiegazione della norma, ma opera anche una sorta di “riserva di scienza”, che condiziona, orienta e limita le discrezionalità decisionali e interpretative, e di “rinvio mobile”, che rimette appunto alla scienza la sussunzione dei fatti nei contenuti di significato delle disposizioni giuridiche.

La conclusione trova conferma in due ulteriori strutture normative della UNFCCC.

La prima riguarda il principio di “precauzione climatica”, esplicitamente indicato dall’art. 3 n. 3 della UNFCCC e ben diverso, proprio per quanto sin qui sintetizzato, dalla precauzione generica di cui parlano disposizioni giuridiche di altri documenti normativi (compresi quelli sull’“ambiente”104). Ecco che cosa si legge all’art. 3 n. 3 UNFCCC.

Conviene riprodurne il testo: «Le Parti devono adottare misure precauzionali per rilevare in anticipo, prevenire o ridurre al minimo le cause dei cambiamenti climatici e per mitigarne gli effetti negativi. Qualora esistano rischi di danni gravi o irreversibili, la mancanza di un’assoluta certezza scientifica non deve essere addotta come pretesto per rinviare l’adozione di tali misure, tenendo presente che le politiche e i provvedimenti necessari per far fronte ai cambiamenti climatici devono essere il più possibile efficaci in rapporto ai costi, in modo da garantire vantaggi mondiali al più basso costo possibile». Si tratta di una disposizione talmente dettagliata da risultare non solo “self executing”, ma soprattutto “deontologica” (indicando il “metodo” e gli “obiettivi” da perseguire: metodi e obiettivi Science based, ossia fondati sulla “riserva di scienza”e il “rinvio alla scienza”), sia per lo Stato (“politiche e provvedimenti necessari”) che per le connesse “misure”.

Ancora più significativa è la seconda specificità, che si desume sempre dai presupposti e dalle definizioni della UNFCCC, con riguardo al cambiamento climatico. Ecco che cosa si legge all’art. 2 n. 2: (definizione di) «cambiamenti climatici: qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane, il quale altera la composizione dell’atmosfera mondiale e si aggiunge alla variabilità naturale del clima osservata in periodi di tempo comparabili». Sul piano fattuale, da esso si comprende che: a) il diritto non si occupa del “fatto” cambiamento climatico naturale, bensì del “fatto” “qualsiasi cambiamento di clima” antropogenico (che “si aggiunge alla variabilità naturale”);

b) il diritto non definisce in base a che cosa il “fatto” cambiamento sia attribuibile “direttamente o indirettamente” all’azione umana. Di conseguenza, sul piano giuridico, si deve concludere che: la dinamica del cambiamento climatico assurge a oggetto giuridico di disciplina solo sul fronte del “rapporto giuridico climalterante” tra attività umane e composizione del sistema climatico, da tali attività “direttamente o indirettamente” “alterato”; tale “alterazione” non è definita dal diritto ma riservata alla scienza (la “riserva di scienza” indica quando e come si “altera” il cambiamento climatico attraverso l’azione umana).

All’interno della realtà presupposta (clima) e disciplinata dal diritto nella sola dinamica del rapporto giuridico umano di alterazione, Preambolo e art. 3 UNFCCC tracciano l’eziologia tra azioni umane-cambiamento-alterazione, su un doppio livello: come causalità giuridicamente presunta in modo assoluto, in quanto il Preambolo normativizza alcuni elementi della dinamica dei cambiamenti climatici antropogenici, presumendo appunto de iure che i cambiamenti climatici producono effetti negativi, sui quali l’azione umana ha notevolmente inciso aumentando la concentrazione dei gas serra, intensificando effetti naturali e provocando ulteriore riscaldamento terrestre con possibili influenze negative su ambiente e genere umano; come causalità materiale, affidata alle evidenze scientifiche, dato che l’art.3 affida, invece, alla scienza la identificazione dei “rischi di danni gravi o irreversibili” da scongiurare e l’analisi dei costi e dei “vantaggi mondiali” più efficace (“mondiali”, quindi per tutti, non solo per alcuni, in termini di solidarietà esterna e interna a ciascuno Stato). Su tale ultima causalità materiale, poi, si specifica che l’incertezza delle previsioni scientifiche (richiamata nel Preambolo non sull’an, bensì solo sul quando – collocazione nel tempo sul quantum – la grandezza e sull’ubi – le manifestazioni regionali) non ne inficia la rilevanza ai fini delle decisioni, in virtù appunto della disposizione speciale di “precauzione climatica”, contenuta sempre nell’art. 3 n. 3.

Infine, l’obiettivo che il diritto si prefigge con questo schema nomologico è esplicitato dagli artt. 2 e 3 n. 1 dell’UNFCCC. Si tratta di un triplice scopo interconnesso e consequenziale: «stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera» (art. 2); [affinché sia] «esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico» (art. 2); [per] «proteggereil sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni» (art. 3). Si tratta dunque di un fine di “stabilizzazione” dei gas serra (sistema climatico stabilizzato nelle concentrazioni di tutti i gas serra, non solo della CO2), di “sicurezza” sull’antropogenesi climalterante (escludere “qualsiasi pericolosa interferenza” delle attività umane sul sistema climatico) e di “protezione” del sistema climatico “a beneficio” delle presenti e future generazioni (dato che il sistema climatico comprende la biosfera e dunque anche gli esseri viventi, compreso l’umano). Con questa conclusione, lo schema del duplice significato del “Common Concern” risulta confermato. In poche parole: solo stabilizzando c’è sicurezza e solo con la sicurezza c’è la protezione (triplice obiettivo interconnesso e consequenziale) del sistema climatico: stabilizzazione, sicurezza e protezione, a loro volta, fondano i “benefici” per le presenti e future generazioni.

Il diritto sul “rapporto giuridico climalterante” è dunque un sistema normativo di prevenzione dalle minacce del cambiamento climatico, a benefico della sicurezza umana presente e futura.

Il cerchio così si chiude: l’elemento deducibile in giudizio, per attivare un effettivo “contenzioso climatico” a tutela esclusiva del diritto alla stabilizzazione e sicurezza del sistema climatico, al di là di qualsiasi altro interesse, dovrebbe partire da qui, dalle Risoluzioni ONU e dai primi tre articoli della UNFCCC, in quanto fonti costitutive del “rapporto giuridico climalterante” attività umana/cambiamento climatico.

Del resto, da questo “rapporto giuridico climalterante” derivano le obbligazioni climatiche tanto degli Stati quanto degli operatori privati (dato che l’UNFCCC non parla di funzioni o poteri statali, ma di “attività umane”). Si è visto che l’art. 3 n. 3 dalle UNFCCC imprime una specifica deontologia (indicando il “metodo” e gli “obiettivi” da perseguire, fondati sulla “riserva di scienza”). Insieme al Preambolo e all’art. 2, poi, l’UNFCCC definisce tutti gli elementi costitutivi della obbligazione climatica. Essa ha per oggetto la regolazione del “rapporto giuridico climalterante” tra attività umane-cambiamenti del clima-composizione dell’atmosfera mondiale, da disciplinare attraverso condotte di rispetto della “riserva di scienza” in tema di “interazioni” del sistema climatico, identificazione delle azioni umane che alterano la composizione dell’atmosfera mondiale “direttamente o indirettamente”, definizione delle “misure precauzionali” da adottare, qualificazione dei “rischi di danni gravi o irreversibili” da scongiurare, definizione dei costi e dei “vantaggi mondiali” più efficaci, sia in termini di mezzi (“rilevare in anticipo, prevenire o ridurre al minimo le cause dei cambiamenti climatici”) che di risultato (la conseguita “mitigazione”), nel triplice fine cui volgere tutte le decisioni, fine interconnesso e consequenziale (stabilizzazione della concentrazione di tutti i gas a effetto serra nella sicurezza della esclusione di “qualsiasi pericolosa” interferenza umana e per la protezione del sistema climatico), “a beneficio” della presente e delle future generazioni.

Il riferimento finale al “beneficio per la presente e le future generazioni” identifica la clausola di chiusura delle regole giuridiche sul “rapporto giuridico climalterante” e sulla obbligazione climatica: stabilizzare nella sicurezza per garantire benefici alle presenti e future generazioni. La pretesa di questo beneficio identifica la possibilità giuridica da far valere in giudizio contro “qualsiasi cambiamento di clima attribuito direttamente o indirettamente ad attività umane”.

Il che comporta, come conclusione, che il “rapporto giuridico climalterante” disciplinato dal diritto non è un rapporto solo tra Stati o tra Stati e cittadini, ma prima di tutto un rapporto tra azioni umane che, alterando le componenti dell’atmosfera, ledono generazioni presenti e future, ossia ledono diritti umani.

Con il recentissimo accertamento scientifico, sostanzialmente unanime, della doppia emergenza ecosistemica e climatica, nella composizione dei suoi elementi costitutivi assurti a fatti notori, la dinamica di questo “rapporto giuridico climalterante” è giunta al suo estremo.

I “rischi di danni gravi e irreparabili” sono resi inconfutabili nelle loro caratteristiche e interazioni sussunte alle leggi scientifiche.

Siamo addirittura all’ipotesi del “Cigno verde”, prima richiamata.

Le obbligazioni climatiche, di conseguenza, possono essere fatte valere in giudizio come “contenzioso climatico” che renda “giustizia” di questo estremo pericolo, affinché le presenti e future generazioni possano ancora contare sui “benefici” di un clima stabilizzato e sicuro.

5. Dalla “tragedia dei beni comuni” alla “tragedia dell’orizzonte”

Ecco allora che, nello stato di emergenza ecosistemica e climatica in atto, “giustizia climatica” e “contenzioso climatico” scoprono una ineluttabile convergenza: non come “Litigation Strategy”, strumentale a qualsiasi interesse, bensì come corrispondenza di tutela urgente dei bisogni primari di sopravvivenza.

In che modo tutelarsi di fronte all’emergenza ecosistemica e climatica?

Le “Climate Change Litigation Strategies” sono state congegnate come rivendicazione di qualsiasi pretesa, a qualsiasi titolo connessa alle emissioni climalteranti. Ragionando in  termini di Tort o di Public Trust, esse hanno assunto il clima come un “bene” nei cui riguardi rivendicare diritti e interessi, come si è visto della più diversa portata. Non a caso, intorno alla loro esperienza è maturata anche la narrazione del clima come “bene comune” o “Global Common”, nei cui riguardi affrontare la classica “tragedia” dell’utilizzo comune senza danni reciproci.

Tuttavia, il clima non è affatto un oggetto di utilizzo. Non è una cosa o un Good nel significato della semantica giuridica di Civil e Common Law. Al massimo, lo si potrebbe inquadrare tra i “frutti naturali” della “cosa” sistema Terra (ovvero quello che proviene direttamente «da una cosa, vi concorra o meno l’opera dell’uomo», come recita l’art. 820 del Codice civile italiano). Tuttavia, come constatato, la UNFCC non ne fa menzione. Manca dunque un formante normativo che legittimi tale ricostruzione del formante dottrinale. Né la comparazione del formante giurisprudenziale consegna certezze sul tema.

Inoltre il clima, a differenza dell’atmosfera, non identifica uno spazio di immissione (l’involucro gassoso), bensì una proiezione di lungo periodo dello stato medio del tempo atmosferico a varie scale spaziali (biosferica, locale, regionale, nazionale, continentale) in cui si inseriscono le emissioni, comprensive anche di quelle di derivazione umana.

Il dato non è di poco conto: la variabile determinante del clima non è lo spazio (come “cosa”), in cui si immette l’azione umana, ma la proiezione temporale, comprensiva dell’immissione. Pertanto, è con la variabile temporale che il diritto climatico deve fare i conti. Ecco perché la “tragedia dei beni comuni” è stata correttamente convertita in “tragedia dell’orizzonte” temporale.

Che fare di fronte a una situazione di accelerazione dei processi temporali del clima, causata dalle immissioni dell’azione umana? Quali obbligazioni far valere? Quali diritti tutelare? Il “contenzioso climatico”, ad oggi sperimentato e censito dalla dottrina, non si è posto questi interrogativi, permanendo nelle riscontrate ambiguità di comprensione dei suoi caratteri distintivi e della sua funzione di “giustizia”.

Ma ora che siamo entrati nella emergenza ecosistemica e climatica, non possiamo sottrarci alle risposte. Quella in corso è una emergenza duplice, interconnessa e purtroppo irreversibile, urgente nei tempi (entro il 2030 per il 2050), ineluttabile nei modi. Essa è stata pure formalmente dichiarata da innumerevoli autorità pubbliche in tutte le parti del mondo, dagli Stati ai municipi allo stesso Parlamento europeo117, al fine di tracciare parametri e direttive di risposta non per eliminarla, ma per scongiurarne le peggiori conseguenze a partire dal 2030.

Essa non produce danni “ambientali” nel significato localizzato e restrittivo, definito per esempio dalla normativa europea. Essa rende permanenti ed evidenti danni “climatici” privativi dei “benefici” della presente e delle future generazioni.

In tale ottica, l’emergenza in atto solleva inedite questioni di “giustizia climatica” (intra- e inter-generazionale) che non possono non trovare anche nel “contenzioso climatico” un possibile sbocco di reazione: contro la negligenza, pubblica o privata, nell’evitare che i rischi e le situazioni costitutive dell’emergenza aumentino e si diffondano ulteriormente; per richiedere l’uso della scienza in funzione della prescrittività speciale contenuta nella UNFCC e del principio di precauzione quale obbligo di risultato nella prevenzione, e non meramente di mezzi, parametrato ai tempi di “salvezza” dalle peggiori conseguenze della

emergenza in atto; per espandere i diritti umani alla dimensione della pretesa della stabilizzazione climatica e della sicurezza nella protezione contri i rischi del mancato conseguimento dei tempi di azione e risultato.

In questo scenario, formanti dottrinali e giurisprudenziali avranno da produrre sempre più incisivi elementi di comprensione del difficile destino dei rapporti tra sopravvivenza umana e sistema Terra, magari inaugurando ulteriori declinazioni della “giustizia climatica”.

Michele Carducci

Centro di Ricerca Euro Americano

sulle Politiche Costituzionali

Università del Salento

michele.carducci@unisalento.it

Qui articolo completo con riferimenti bibliografici

Qui articolo su Fatto Quotidiano

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